Perché Cicerone scrisse di filosofia? (De divinatione, II, 1-7)

giugno 10, 2009 § Lascia un commento

Mi sono chiesto e ho molto e lungamente riflettuto come avrei potuto giovare alla maggior parte dei miei concittadini, per non essere costretto in nessun caso a smettere di agire a vantaggio dello Stato. « Leggi il seguito di questo articolo »

La morte di Cicerone

giugno 10, 2009 § Lascia un commento

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Virgilio, Eneide, libro IV

Maggio 16, 2009 § 7 commenti

Il libro IV è dedicato totalmente all’amore dell’infelice Didone per Enea. Amore come furor, al quale si contrappone la pietas di Enea, che accetta il destino che gli dei hanno voluto per lui e abbandona al suo tragico destino la donna che lo ama.

[Leggi una bella introduzione al canto]

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L’ospitalità che si deve ai profughi: Virgilio, Eneide I 520-574

Maggio 15, 2009 § 1 Commento

Enea, che la madre Venere ha reso invisibile, può assistere all’incontro della delegazione dei naufraghi Troiani con la regina Didone, che guida un popolo di profughi che stanno costruendo Cartagine, per ricostruire la propria patria. « Leggi il seguito di questo articolo »

Virgilio, Eneide I 291-296

Maggio 15, 2009 § Lascia un commento

Venere chiede chiarimenti al padre Giove sul destino di Enea. Al termine del discroso di Giove, che fa una rassegna di quella che sarà la storia di Roma nei secoli, troviamo questa esaltazione del secolo augusteo, soprattutto della pace da lui instaurata.

Allora, cessate le guerre, il secolo feroce
mite diventerà; Vesta, la Fede canuta,
Quirino e il fratello Remo daranno pacifiche leggi;
le porte della Guerra saranno chiuse col ferro
e con stretti legami; là dentro l’empio Furore
seduto su un mucchio d’armi, le mani dietro la schiena
legate con ceppi di bronzo, fremerà d’ira impotente
digrignando terribile la bocca sanguinosa.

Virgilio, Eneide, I 1-33

Maggio 15, 2009 § Lascia un commento

Canto le armi, canto l’uomo che primo da Troia
venne in Italia, profugo per volere del Fato
sui lidi di Lavinio. A lungo travagliato
e per terra e per mare dalla potenza divina
a causa dell’ira tenace della crudele Giunone,
molto soffrì anche in guerra: finché fondò una città
e stabilì nel Lazio i Penati di Troia,
origine gloriosa della razza latina
e albana, e delle mura di Roma, la superba.
Musa, ricordami tu le ragioni di tanto
doloroso penare: ricordami l’offesa
e il rancore per cui la regina del cielo
costrinse un uomo famoso per la propria pietà
a soffrire così, ad affrontare tali
fatiche. Di tanta ira son capaci i Celesti?
Vi fu un’antica città, abitata dai Tiri,
che fronteggiava l’Italia e le foci del Tevere
da lontano: Cartagine, ricchissima di mezzi
e terribile in armi. Si dice che Giunone
la preferisse a ogni terra, persino alla stessa Samo,
e vi tenesse le armi e il carro. Già da allora
la Dea si adoperava con ogni sforzo a ottenerle,
se mai lo consentano i Fati, l’impero del mondo.
Ma aveva saputo che dal sangue troiano
sarebbe nata una stirpe destinata ad abbattere
le rocche di Cartagine; che un popolo dal vasto
dominio e forte in guerra sarebbe venuto a distruggere
la Libia: tale sorte filavano le Parche.
Temendo l’avvenire e memore della guerra
che aveva combattuto un tempo sotto Troia
per i suoi cari Argivi, Giunone conservava
ancora vive nell’anima altre ragioni d’ira
e di fiero dolore: le restano confitti
nel profondo del cuore il giudizio di Paride,
l’onta della bellezza disprezzata, il rancore
per la razza troiana, gli onori ai quali è assurto
Ganimede. Infiammata da tanti oltraggi, la Dea
teneva lontani dal Lazio, sballottati sulle onde,
i Troiani scampati ai Greci ed al feroce
Achille: ed essi erravano sospinti dal destino
per ogni mare da molti e molti anni. Tanto
era arduo, terribile, fondare la gente romana!

Catullo, piccola antologia

Maggio 15, 2009 § Lascia un commento

I. La dedica del liber

Cui dono lepidum novum libellum
arida modo pumice expolitum?
Corneli, tibi: namque tu solebas
meas esse aliquid putare nugas
iam tum, cum ausus es unus Italorum
omne aevum tribus explicare chartis
doctis, Iuppiter, et laboriosis.
quare habe tibi quidquid hoc libelli
qualecumque; quod, o patrona virgo,
plus uno maneat perenne saeclo.

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Lucrezio, III 830-851: nulla è la morte per noi

Maggio 15, 2009 § Lascia un commento

Nulla dunque la morte è per noi, né ci riguarda punto,
dal momento che la natura dell’animo è conosciuta mortale.
E come nel tempo passato non sentimmo alcuna afflizione,
mentre i Cartaginesi da ogni parte venivano a combattere,
quando il mondo, scosso dal trepido tumulto della guerra,
tremò tutto d’orrore sotto le alte volte dell’etere,
e fu dubbio sotto il regno di quale dei due popoli
dovessero cadere tutti gli uomini sulla terra e sul mare,
così quando noi non saremo più, quando sarà avvenuto il distacco
del corpo e dell’anima, che uniti compongono il nostro essere,
certo a noi, che allora non saremo più, non potrà affatto
accadere alcunché, nulla potrà colpire i nostri sensi,
neppure se la terra si confonderà col mare e il mare col cielo.
E anche se supponiamo che, dopo il distacco dal nostro corpo,
la natura dell’animo e il potere dell’anima serbano il senso,
questo tuttavia non importa a noi, che dall’unione e dal connubio
del corpo e dell’anima siamo costituiti e unitamente composti.
E quand’anche il tempo raccogliesse la nostra materia
dopo la morte e di nuovo la disponesse nell’assetto
in cui si trova ora e a noi fosse ridata la luce della vita,
tuttavia neppure questo evento ci riguarderebbe minimamente,
una volta che fosse interrotta la continuità della nostra coscienza.

Lucrezio, I 62-69: l’elogio di Epicuro

Maggio 15, 2009 § Lascia un commento

Quando la vita umana giaceva turpemente davanti agli occhi
sulla terra schiacciata sotto la pesante religione
che protendeva il capo dalle regioni del cielo
incombendo sui mortali con aspetto orribile,
per primo un uomo greco osò alzare contro
gli occhi mortali e per primo opporsi contro,
e non lo frenò la fama degli dei nè i fulmini
nè il cielo con il mormorio minacciante, ma questo
stimolò di più l’ardente virtù dello spirito, desiderando per primo
di infrangere gli stretti serrami delle porte della natura.
Quindi prevalse la vivace forza dell’animo, e avanzò a lungo
oltre le mura infiammate dell’universo
e percorse con la ragione e l’animo l’immenso universo,
da cui, vittorioso, riporta a noi cosa possa nascere,
cosa non possa, infine per quale ragione ogni cosa abbia
una legge definita e un limite profondamente fisso.
Perciò la religione messa sotto i piedi a sua volta
viene calpestata, la vittoria ci uguaglia al cielo.

Orazio, sat. I

Maggio 15, 2009 § Lascia un commento

versi 69-70

…quid rides? mutato nomine de te
fabula narratur…

versi 106-107

est modus in rebus, sunt certi denique fines,
quos ultra citraque nequit consistere rectum.

Traduzione
Come mai, Mecenate,
nessuno, nessuno vive contento
della sorte che sceglie
o che il caso gli getta innanzi
e loda chi segue strade diverse?
‘Fortunati i mercanti’,
esclama il soldato oppresso dagli anni
e con le membra rotte da tanta fatica;
‘Meglio la vita militare’,
ribatte il mercante sulla nave in balia dei venti,
‘Che vuoi? si va all’assalto
e in breve volgere di tempo
ti rapisce la morte o
ti arride la vittoria.’ « Leggi il seguito di questo articolo »